I più grandi fallimenti M&A della storia e cosa possiamo imparare

Immagine di copertina: illustrazione stilizzata di due grandi sfere (due aziende) che tentano di unirsi ma restano separate da una frattura al centro, su sfondo giallo acceso.

Le operazioni di fusione e acquisizione (M&A) promettono spesso crescita accelerata, sinergie straordinarie e vantaggi competitivi. Eppure, non di rado, questi “matrimoni” aziendali si trasformano in clamorosi fallimenti. Nella storia del business, alcuni M&A sono divenuti esempi iconici di cosa può andare storto quando due aziende provano a integrarsi. In questo articolo esploriamo i più grandi fallimenti M&A della storia, analizzando in dettaglio ciascun caso: cosa è andato storto, quali errori sono stati commessi e quali lezioni possiamo trarne per il futuro. Sarà un viaggio narrativo tra colossi aziendali e decisioni disastrose, per capire come anche le operazioni presentate come “fusione del secolo” possano in realtà rivelarsi perdite colossali e come evitare di ripeterne gli sbagli.

AOL e Time Warner: quando la sinergia non basta

All’alba del nuovo millennio, la fusione tra AOL (il gigante di Internet) e Time Warner (colosso dei media tradizionali) veniva celebrata come la “fusione del secolo”. L’idea era unire la principale piattaforma Internet con uno dei maggiori produttori di contenuti al mondo, in modo da creare sinergie senza precedenti. Nel 2000 AOL acquisisce Time Warner in un’operazione valutata oltre 160 miliardi di dollari, con aspettative altissime di dominare sia il settore dei media tradizionali sia quello nascente del webtrellispoint.comtrellispoint.com. Purtroppo, la realtà fu ben diversa. I problemi iniziarono quasi subito: le due aziende continuarono a operare in modo piuttosto indipendente, e le sinergie promesse non si materializzarono mai davvero. Emersero forti scontri di cultura aziendale – AOL giovane e orientata all’innovazione rapida, Time Warner più tradizionale e burocratica – che generarono incomprensioni e diffidenze internetrellispoint.comtrellispoint.com. Inoltre la bolla delle dot-com scoppiò proprio in quei mesi, facendo crollare il valore di AOL e mettendo in crisi l’intero settore. Nel 2002 il conglomerato AOL Time Warner annunciò una perdita record di 99 miliardi di dollari, all’epoca la più grande mai registrata da un’aziendait.wikipedia.org. Quella che doveva essere una fusione epocale si era trasformata in una rovina per gli azionisti, un caso di studio emblematico di come una decisione basata solo su bilanci e numeri, ignorando il fattore culturale, significhi correre spediti verso il fallimentotibicon.net. Nel 2003 la società tornò a chiamarsi semplicemente Time Warner, sancendo di fatto la fine del sogno di integrazione con AOL. In retrospettiva, il flop AOL-Time Warner insegna che le migliori strategie sulla carta valgono poco senza una reale integrazione: serve allineare culture aziendali, sistemi tecnologici e visione strategica, altrimenti l’operazione rischia di diventare un colosso dai piedi d’argillatrellispoint.comtrellispoint.com.

Daimler e Chrysler: uno scontro culturale fatale

Quando nel 1998 la tedesca Daimler-Benz (produttrice delle Mercedes) e l’americana Chrysler annunciarono la loro fusione, sembrò una mossa perfetta. Si parlò di “merger of equals” – fusione tra pari – che avrebbe creato il più grande gruppo automobilistico mondialetheguardian.com, combinando l’eccellenza ingegneristica tedesca con la vasta presenza di Chrysler sul mercato USAtheguardian.com. Purtroppo, già dai primi mesi divenne chiaro che l’integrazione era più complicata del previsto. Nonostante gli sforzi iniziali (riunioni, seminari interculturali, ecc.), emersero profondi attriti culturali tra le due realtàtheguardian.com. Da un lato Daimler vantava un approccio molto strutturato, gerarchico e orientato alla qualità assoluta; dall’altro Chrysler aveva una cultura più informale, creativa e orientata alla rapidità. Il risultato? Diffidenza e incomprensioni: il personale Chrysler percepiva un atteggiamento di superiorità da parte dei tedeschi (alcuni concessionari Mercedes rifiutavano persino di vendere modelli Dodge o Jeep)theguardian.com, mentre Daimler faticava a fidarsi dei processi produttivi Chrysler, ritenuti non all’altezza dei propri standardtheguardian.com. In pratica, sebbene sulla carta si parlasse di fusione fra uguali, nella sostanza Daimler prese il controllo (il CEO di Chrysler Bob Eaton divenne co-CEO ma ebbe poca influenza)theguardian.com. Molti dirigenti chiave di Chrysler lasciarono l’azienda poco dopo, portando via conoscenze e destabilizzando la situazionetheguardian.com. Sul fronte finanziario, il “matrimonio” non rese come sperato: nel giro di qualche anno Chrysler iniziò a perdere quota di mercato e a registrare pesanti perdite (già nel 2001 il nuovo gruppo DaimlerChrysler aveva perso in Borsa tutto il valore aggiunto della fusione)theguardian.com. Di fatto la fusione si era trasformata in una zavorra. Nel 2007 Daimler decise di gettare la spugna vendendo Chrysler al fondo Cerberus per soli 7,4 miliardi di dollari – circa un quinto dei 36 miliardi che aveva pagato inizialmentetheguardian.com. Le azioni Daimler avevano perso oltre il 60% del loro valore rispetto al periodo pre-fusioneformulapassion.it. La stampa e gli analisti definirono l’operazione “un vero e proprio disastro”, attribuendo il flop proprio alla grande differenza tra la cultura industriale tedesca e quella americanaformulapassion.it. La lezione? In un M&A internazionale, l’integrazione culturale è cruciale quanto e più delle considerazioni finanziarie: sottovalutarla può condurre anche la fusione più promettente a un epilogo fallimentare.

Quaker Oats e Snapple: il costo di una strategia sbagliata

A metà anni ’90, Quaker Oats – azienda famosa per i cereali e proprietaria della bevanda sportiva Gatorade – decise di espandersi ulteriormente nel settore beverage acquisendo la trendy marca di tè e succhi di frutta Snapple. Nel 1994 Quaker pagò ben 1,7 miliardi di dollari per Snapple, una cifra che molti analisti già giudicavano esagerata (si parlò di almeno un miliardo in più del valore reale)latimes.com. Il presidente di Quaker, William Smithburg, era convinto di poter replicare con Snapple il successo avuto con Gatorade, sfruttando le sinergie di marketing e distribuzione tra le due bevandelatimes.com. Ma stavolta la scommessa si rivelò un boomerang. Snapple infatti aveva un modello di distribuzione molto diverso: vendite singole in piccoli negozi e distributori indipendenti, una rete costruita con cura dagli imprenditori che avevano creato il marchio. Quaker provò a integrare Snapple nella propria potente rete di vendita nei supermercati (dove dominava con Gatorade), ma così facendo snaturò il modello vincente di Snapple, che perse rapidamente terreno. Inoltre, proprio in quel periodo il boom delle bevande “new age” rallentò e giganti come Coca-Cola e Pepsi lanciarono prodotti concorrenti, erodendo la quota di mercato di Snapplelatimes.com. In breve tempo le vendite calarono e i margini crollarono. Dopo soli 27 mesi dall’acquisizione, Quaker gettò la spugna: nel 1997 vendette Snapple alla società Triarc per appena 300 milioni di dollari, incassando una perdita impressionante. In pratica, come evidenziò un analista, Quaker perse 1,6 milioni di dollari per ogni giorno in cui aveva posseduto Snapplelatimes.comlatimes.com. Fu un tracollo da 1,4 miliardi complessivi andati “in fumo”. L’operazione Quaker-Snapple è passata alla storia come uno dei flop peggiori e più rapidi nel mondo delle fusioni: un vero caso di studio di mismanagement che costò il posto a diversi dirigenti e compromise la fiducia degli investitori nell’aziendalatimes.comlatimes.com. La morale? Non basta l’entusiasmo né i successi passati per garantire una buona acquisizione. Bisogna valutare con realismo il prezzo di acquisto (Quaker pagò troppo), capire le caratteristiche uniche del business acquisito (Snapple non poteva essere gestita come Gatorade) e studiare bene il mercato e la concorrenza. In caso contrario, si rischia di comprare a caro prezzo un’illusione e dover rivendere in fretta raccogliendo solo macerie.

eBay e Skype: un matrimonio senza dialogo

Nel 2005 il gigante delle aste online eBay fece scalpore annunciando l’acquisizione di Skype, servizio emergente di chiamate VoIP, per circa 2,6 miliardi di dollari. L’idea della CEO di eBay, Meg Whitman, era apparentemente sensata: integrare Skype sulla piattaforma eBay per facilitare la comunicazione in tempo reale tra venditori e acquirenti, migliorando l’esperienza d’usoinvestopedia.com. In pratica, un potenziale acquirente avrebbe potuto chiamare via Internet il venditore per fare domande su un oggetto all’asta. Purtroppo, questa sinergia immaginata non incontrò mai il favore degli utenti. Sulla piattaforma eBay, compratori e venditori si trovavano benissimo con email e messaggi testuali; anzi, molti apprezzavano una certa riservatezza nel processo di compravendita, preferendo non dover parlare a vocepcworld.com. L’integrazione eBay-Skype di fatto non decollò maipcworld.compcworld.com. Skype continuava ad essere usato come applicazione separata, senza portare alcun vantaggio concreto al core business di eBay. Inoltre vi furono attriti culturali: eBay aveva una cultura più “da banca”, conservativa e focalizzata sul commercio, mentre Skype era una tech company innovativa e disinvolta – due mentalità difficili da far combaciarepcworld.com. Dopo un paio d’anni, eBay dovette ammettere che l’operazione non stava funzionando: nel 2007 svalutò il valore di Skype per circa 900 milioni di dollari sul bilancioinvestopedia.com. Nel 2009 decise di uscire in parte dall’investimento, vendendo circa il 65% di Skype a un gruppo di investitori privati e incassando attorno a 2 miliardi (valutazione complessiva di 2,75 miliardi)pcworld.com. In pratica eBay recuperò all’incirca quanto speso, ma perse tempo, energie e dovette riconoscere pubblicamente il fallimento della sua strategia iniziale. Ironia della sorte, nel 2011 Skype fu rivenduta dai nuovi proprietari a Microsoft per ben 8,5 miliardi, evidenziando come il problema non fosse Skype in sé (che anzi aveva grande valore), ma la mancata visione strategica di eBay nell’usarlo al meglio. Per eBay fu una lezione bruciante: un’acquisizione va fatta solo se c’è un chiaro fit strategico. Acquistare una società innovativa senza sapere esattamente come integrarla e crearne valore può portare a un matrimonio forzato destinato al divorzio. In questo caso, eBay sopravvisse al flop senza danni irreparabili, ma l’episodio resta un monito sull’importanza di allineare l’acquisizione alle reali esigenze dei propri clienti e del proprio business, evitando facili entusiasmi per la tecnologia del momento.

News Corp e MySpace: il treno perso dell’innovazione

Nel 2005 la compagnia di Rupert Murdoch, News Corporation, acquistò con grande clamore il social network MySpace per 580 milioni di dollari. A quel tempo MySpace era il social più popolare al mondo, il pioniere di un fenomeno in esplosione. L’investimento sembrò inizialmente azzeccato: nel 2006 MySpace strinse un ricchissimo accordo pubblicitario con Google da 900 milioni di dollari, e nel 2007 aveva raggiunto i 300 milioni di utenti registrati, con una valutazione virtuale stimata intorno ai 12 miliardi di dollaritheguardian.comtheguardian.com. Sembrava una gallina dalle uova d’oro. Ma proprio in quegli anni arrivò sulla scena un nuovo rivale: Facebook (lanciato solo nel 2004), che pian piano iniziò a sorpassare MySpace per innovazione e gradimento degli utenti. MySpace, sotto la gestione News Corp, commise diversi errori: non seppe adattarsi ai cambiamenti (la piattaforma rimase confusionaria e pesante mentre Facebook offriva un’esperienza più pulita), puntò troppo su contenuti musicali e intrattenimento trascurando la dimensione sociale personale, e venne saturata di pubblicità (complice l’accordo con Google) a scapito dell’esperienza utente. Così, nel giro di pochi anni, il pubblico iniziò un esodo verso Facebook e altri servizi più moderni. News Corp provò vari restyling e cambi di management, ma senza successo: MySpace stava rapidamente perdendo rilevanza. Nel 2011, a sei anni dall’acquisizione, Murdoch decise di vendere: MySpace fu ceduta alla società Specific Media per soli 35 milioni di dollari, una frazione irrisoria di quanto pagato inizialmente (Murdoch sperava di spuntare almeno 100 milioni, ma dovette accontentarsi)theguardian.comtheguardian.com. In quei sei anni MySpace era passata da astro nascente a piattaforma quasi deserta, con un drastico ridimensionamento anche del personale impiegatotheguardian.com. Che cosa era andato storto? In retrospettiva, MySpace fallì perché perse il treno dell’innovazione: sotto News Corp non evolse abbastanza rapidamente, mentre Facebook (e più tardi altre piattaforme come Twitter, Instagram, etc.) continuavano ad aggiungere funzionalità e migliorare. Inoltre la nuova proprietà forse non comprese appieno le dinamiche dei social network, trattando MySpace come una tradizionale media company spinta a “monetizzare” subito con la pubblicità, invece di focalizzarsi sull’esperienza utente in un ecosistema digitale in rapida evoluzione. La lezione di MySpace è semplice ma potente: in settori ad alta velocità di cambiamento, comprare un leader di oggi non garantisce di avere un leader anche domani. Senza la capacità di adattarsi e innovare costantemente, anche un colosso dei social media può collassare in pochissimo tempo. Per Murdoch fu un insuccesso bruciante (ammettendo su Twitter che l’acquisto di MySpace era stato un errore), e per tutti gli operatori del settore un monito: non bisogna mai sottovalutare i nuovi entranti né sedersi sugli allori di un vantaggio temporaneo.

Microsoft e Nokia: un’alleanza fuori tempo massimo

Nel 2013 il colosso tecnologico Microsoft, allora guidato dal CEO Steve Ballmer, annunciò l’acquisizione della divisione dispositivi mobili di Nokia per circa 7 miliardi di dollari. Nokia, un tempo leader indiscusso dei cellulari, attraversava una crisi profonda dopo l’avvento degli smartphone Apple e Android; Microsoft, dal canto suo, cercava disperatamente di entrare nel mercato mobile dominato dai suoi rivali. L’idea di Ballmer era combinare il software di Microsoft (Windows Phone) con l’hardware e il marchio Nokia, per creare un terzo ecosistema mobile competitivo. Purtroppo, anche qui, i buoni propositi non bastarono. Al momento dell’acquisizione, Nokia aveva già perso la maggior parte della propria quota di mercato e l’ecosistema Windows Phone era largamente in ritardo rispetto ad Android e iOS in termini di app disponibili e preferenze degli utenti. In pratica Microsoft stava comprando “quel che restava” di Nokia per provare un ultimo assalto al mercato smartphone, ma era troppo tardi. Nei due anni successivi, nonostante l’impegno e qualche buon modello Lumia lanciato, la situazione non migliorò: la piattaforma Windows Phone rimase marginale, gli sviluppatori di app continuavano a ignorarla, e i consumatori pure. Quando nel 2014 Satya Nadella subentrò a Ballmer come nuovo CEO di Microsoft, la pazienza finì: a metà 2015, Microsoft annunciò una maxi svalutazione di 7,6 miliardi di dollari relativa all’acquisizione Nokia – praticamente l’intero valore pagato – ammettendo ufficialmente il fallimento di quella strategiacomputerworld.com. Contestualmente furono tagliati circa 7.800 posti di lavoro nel segmento mobile. Un analista definì l’operazione “un errore monumentale”, commentando che Microsoft non aveva alcun motivo di entrare in un settore, quello dei telefoni, altamente competitivo e a basso margine dove a far profitti c’era solo Applecomputerworld.comcomputerworld.com. In altre parole, Ballmer volle forzare la presenza di Microsoft nel mobile quando ormai le condizioni di mercato erano sfavorevoli, spendendo una fortuna per un’unità di business che si rivelò un peso morto. La partnership preesistente tra le due aziende (dal 2011 Nokia adottava Windows Phone sui suoi dispositivi) non aveva dato i frutti sperati, e l’acquisizione completa non fece che affondare ulteriormente il colosso finlandese trascinando con sé un costoso fallimento per Microsoft. Nel 2016 Microsoft abbandonò praticamente ogni sviluppo di nuovi smartphone, sancendo la fine dell’avventura. Questo caso insegna che in ambito tecnologico arrivare in ritardo può essere fatale: nemmeno le risorse immense di Microsoft poterono cambiare le preferenze di mercato già consolidate. Inoltre, evidenzia come acquisire un’azienda in declino sperando di salvarla può rivelarsi un abbaglio, se il declino è dovuto a trend di settore irreversibili (nel caso di Nokia, l’ecosistema software non competitivo). In definitiva, l’affaire Microsoft-Nokia è un monito sull’importanza di valutare realisticamente la finestra temporale di un’opportunità di mercato: se quella finestra è già chiusa, investire miliardi non la riaprirà.

Hewlett-Packard e Autonomy: quando la due diligence fallisce

Uno dei capitoli più drammatici nei fallimenti M&A riguarda Hewlett-Packard (HP), storico gigante informatico, e la società inglese di software enterprise Autonomy. Nel 2011 HP – all’epoca in difficoltà nel ridefinire la propria strategia – decise di puntare forte sul settore dei big data e analytics, acquistando Autonomy per la cifra astronomica di 11 miliardi di dollari cash. Fin da subito molti criticarono il prezzo elevatissimo pagato (oltre il 60% in più del valore di Borsa di Autonomy) per una società che fatturava circa 1 miliardo l’anno e con utili modestimoney.cnn.commoney.cnn.com. Ma il management di HP assicurò che la tecnologia di Autonomy avrebbe portato grandi vantaggi e nuove entrate. Solo un anno più tardi, nel 2012, emerse quello che nessuno si aspettava: HP annunciò una svalutazione shock di 8,8 miliardi di dollari legata all’acquisizione di Autonomy, accusando esplicitamente gli ex vertici di Autonomy di aver falsificato i conti e gonfiato le performance societariemoney.cnn.commoney.cnn.com. In pratica, HP dichiarò di aver scoperto gravi improprietà contabili e misrepresentations nei bilanci di Autonomy prima dell’acquisizione – errori che incredibilmente erano sfuggiti ai controlli durante la due diligence. Lo scandalo fu enorme. Le azioni HP crollarono di oltre il 10% in un solo giornomoney.cnn.com, gli azionisti erano furiosi e si aprì una battaglia legale infinita tra HP e l’ex management di Autonomy, con accuse di frode. Il CEO di HP Meg Whitman definì l’acquisizione di Autonomy come un errore gravissimo commesso dal precedente CEO (Leo Apotheker) e dal suo team, sottolineando come i controlli siano stati insufficienti, nonostante l’intervento di consulenti di prim’ordine (Deloitte aveva certificato i conti di Autonomy, KPMG aveva riesaminato e nulla di anomalo era stato rilevato)money.cnn.com. HP sosteneva che Autonomy avesse artatamente aumentato i propri ricavi presentando vendite di software come se fossero più redditizie e nascondendo cali di performance, creando così una valutazione gonfiata. Di chiunque fosse la colpa diretta, per HP il risultato fu disastroso: in un colpo solo dovette azzerare quasi 9 miliardi di valore, ammettendo implicitamente di aver compiuto un’enorme sbadataggine in fase di due diligence. La vicenda HP-Autonomy è esemplare dei rischi di un’acquisizione senza un’adeguata verifica: insegna che affidarsi ciecamente ai bilanci presentati dal venditore può essere fatale. È fondamentale condurre due diligence approfondite e indipendenti, soprattutto quando si paga un premio elevato su società complesse. In questo caso, HP imparò a caro prezzo che ignorare segnali di allarme e non capire a fondo il business che si sta comprando può portare non solo a perdite finanziarie enormi, ma anche a danni reputazionali e cause legali prolungate. Questo fallimento è anche un promemoria dell’importanza della governance e dei controlli interni in operazioni tanto grandi: HP dopo lo scandalo rivide completamente i suoi processi interni di approvazione delle acquisizioni, per evitare che qualcosa di simile potesse accadere di nuovomoney.cnn.commoney.cnn.com.

MPS e Antonveneta: l’azzardo che costò carissimo

Per concludere questa rassegna, spostiamoci in Italia, dove uno dei casi più emblematici di fallimento M&A fu l’acquisizione della Banca Antonveneta da parte di Monte dei Paschi di Siena (MPS). Nel novembre 2007 MPS – la banca più antica del mondo – annunciò l’accordo per comprare Antonveneta dal gruppo spagnolo Santander, sborsando circa 9 miliardi di euro in contantireuters.com. L’operazione destò subito stupore: Santander aveva acquistato Antonveneta solo poche settimane prima (all’interno dello smembramento del gruppo olandese ABN AMRO) per circa 6,6 miliardi e la rivendeva prontamente guadagnando una fortuna. Perché MPS pagò così tanto? Dalle successive inchieste emerse che il presidente di MPS dell’epoca, Giuseppe Mussari, volle fortemente chiudere l’affare in fretta, temendo la concorrenza di un’offerta di BNP Paribasreuters.comreuters.com. Accecato dal timore di “perdere il treno”, Mussari accettò di procedere senza una due diligence preventiva approfondita sui conti di Antonvenetareuters.com – fatto incredibile per un’operazione di quelle dimensioni. In pratica MPS acquistò al buio, fidandosi dei dati forniti dal venditore e dell’opinione di pochi consulenti, e per giunta accollandosi un aumento di prezzo dovuto a una sorta di rilancio al buio per battere la concorrenza. Purtroppo, subito dopo l’acquisizione, la realtà presentò il conto: vennero fuori criticità nei bilanci di Antonveneta, crediti deteriorati e necessità di rettifiche pesanti (già note in parte a Santander, che infatti aveva colto l’occasione per vendere rapidamente)reuters.comreuters.com. Come se non bastasse, a pochi mesi di distanza scoppiò la grande crisi finanziaria globale del 2008, che mise in ginocchio il sistema bancario. MPS, già indebolita dall’enorme esborso fatto (i 9 miliardi furono finanziati in buona parte a debito, con obbligazioni costose), si trovò con le casse vuote, un’acquisita problematica e uno scenario economico disastroso. Nel giro di breve la banca senese dovette svalutare gran parte dell’avviamento di Antonveneta e cercare capitali freschi per reggere. Le difficoltà generate da quell’operazione furono così gravi che MPS – da sempre orgogliosamente indipendente – nel 2009 dovette chiedere un intervento di salvataggio pubblico da quasi 4 miliardi di euro (i cosiddetti “Tremonti Bond”)reuters.com. In sostanza, l’acquisizione di Antonveneta che doveva proiettare MPS tra i big player italiani si rivelò l’origine della rovina della banca senesereuters.com. Negli anni seguenti MPS accumulò perdite su perdite, fu travolta da scandali (anche legati a operazioni finanziarie fatte per cercare di mascherare le perdite di Antonveneta) e finì per essere salvata dallo Stato con successive ricapitalizzazioni, perdendo di fatto la propria autonomia. Questo caso offre una sintesi quasi didascalica di molti errori M&A: sovrapagare un asset spinti dall’ego e dalla fretta, ignorare la due diligence e i segnali di allarme, e sottovalutare il contesto macroeconomico (fare un’acquisizione enorme alla vigilia di una crisi finanziaria globale si rivelò fatale). La lezione è chiara: prudenza e rigorosa analisi devono guidare ogni operazione. Quando ci si lascia trascinare dall’ambizione di una crescita rapida a tutti i costi, rischiando oltre il sostenibile (MPS impegnò risorse enormi ben oltre le proprie capacità), le conseguenze possono essere devastanti. MPS e Antonveneta insegnano che una fusione non va mai valutata solo dal punto di vista offensivo (“cosa guadagniamo se funziona?”) ma anche difensivo (“cosa rischiamo se qualcosa va storto?”). In questo caso, tutto è andato storto e il rischio si è trasformato in realtà, offrendo a posteriori un caso da manuale di ciò che non bisogna fare in un’operazione di fusione e acquisizione.

In conclusione, quali insegnamenti comuni emergono da questi grandi fallimenti? Innanzitutto, l’importanza di una due diligence solida e onesta: conoscere davvero cosa si sta comprando, senza farsi illudere da dati di facciata o dalla pressione del momento, è fondamentale (HP-Autonomy e MPS-Antonveneta docent). In secondo luogo, la necessità di un fit strategico e culturale reale: mettere insieme due aziende è facile sulla carta, ma se non c’è compatibilità di culture, di modelli di business o un piano chiaro per creare valore insieme, l’unione rischia di distruggere valore invece di crearlo (AOL-Time Warner, Daimler-Chrysler, eBay-Skype ce lo ricordano bene). Terzo, non bisogna mai pagare più del dovuto per mode o entusiasmi: le valutazioni folli spesso portano a rimpianti (vedi Quaker-Snapple e MySpace) e a pesanti svalutazioni successive. Infine, conta molto il timing: entrare in un settore maturo quando ormai i giochi sono fatti (Microsoft-Nokia) o perdere il passo dell’innovazione (MySpace) significa condannare l’M&A al fallimento. Conoscere questi casi e le loro dinamiche ci aiuta a capire che dietro ogni fusione fallita ci sono errori umani evitabili: sopravvalutazione, scarsa preparazione, arroganza o miopia strategica. Imparare da questi errori è il modo migliore per non ripeterli e per provare, invece, a far funzionare le grandi unioni aziendali del futuro.

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